Torniamo a parlare di Manifesta, e stavolta di Principle Hope, la sezione roveretana curata da Adam Budak. Sede principale, il grande recupero industriale della Manifattura Tabacchi.
Lo abbiamo già  detto, si sa, Manifesta è la biennale europea dedicata all’arte contemporanea, ma anche in questo caso il suono – in alcuni allestimenti – non mancava. E quindi noi c’eravamo…
Parleremo quindi solo di quegli artisti che con il suono si sono cimentati. A partire da quello che ci è piaciuto di più, ovvero le sculture sonore di Nina Canell. Classe 1979, Nina è un’artista svedese che vive in Irlanda. Nina lavora con luce, suono e corrente elettrica, e quello che espone a Manifesta è di gran lunga il lavoro più interessante della rassegna che coinvolga il suono.
Lo spettatore si trova di fronte ad un paio di decine di pentole e bacinelle, tamburi fai da te ricoperti di pelle tesa(vera o più probabilmente sintetica) simile a quella, appunto, degli strumenti a percussione. Le bacinelle, piene d’acqua, fanno fuoriuscire vapore (una sorta di nebbia) che si condensa sulla plastica. Non è facile comprendere il meccanismo, che naturalmente non è svelato. Si direbbe che l’acqua sia surriscaldata, e una volta raggiunta una certa temperatura la pellicola che ricopre le bacinelle si tenda, emettendo una vibrazione raccolta da un microfono a contatto e amplificata.
Non credo sia questo il meccanismo, per questioni di ordine elettrico e strumentale, ma la suggestione è forte, data dai suoni che a turno emergono dalla nebbia delle bacinelle disposte in cerchio come un’orchestra di tamburi. Sicuramente un’artista da tenere d’occhio, tra l’altro Nina collabora con il musicista Robert Watkins con il quale si esibisce live – ecco un’intervista su questo progetto.
Non così interessanti gli altri due interventi spicificamente dedicati al suono.
Il primo, quello di Nico Vascellari che ha radunato un folto gruppo di musicisti e scultori di suono per quella che il programma di Manifesta definisce “una grande installazione video”. Mi viene ora il dubbio di averla vista accesa per metà  (come ad essere sincera è capitato in altre occasioni in questa Manifesta) perchè di grande non ho visto nulla, e quasi nulla di video.
Ecco lo scenario: stanza buia, alcuni frammenti di vetro rotto, a grandezza semi-uomo. Rotti talmente a caso, con proiezioni di paesaggi che si riflettono talmente sghembi, con il sovrappiù del vetro deformante, che il tutto sembra veramente buttato a casaccio. Mi si dirà  che è stato voluto così. Sarà  , ma comincio sempre più a pensare che questo effetto finto nonchalance non nasconda un grande artista ma un pensiero debole e un’ancor più debole capacità  artigiana, tecnica se vogliamo. Veniamo al suono, che proviene dalla porta seminichiusa che dà  su un ballatoio in disuso. Dall’unica fessura aperta di possono ammirare una decina di casse – belle grosse – quasi che la visione rubata di un dispiego tecnologico possa dare al pubblico l’idea di quel famoso pensiero sonoro che è del tutto assente. Da fuori infatti si sente un miscuglio informe a me incomprensibile, paesaggistico o meno a seconda degli artisti, con un pedale sui 50 Hz che sa tanto di interferenza, ma non mi fermo abbastanza per darvene garanzia. Insomma, ancora una volta un’occasione sprecata.
Che dire poi di Spazio Jens Blauert. Collocato al piano terra dell’edificio della Manifattura Tabacchi, l’installazione di Florian Hecker rientra nella rassegna Auditory Epode, che si vuole omaggio al Futurismo nella città  natale di Fortunato De Pero. Di Auditory Epode segnalo la scultura sonora (di cui purtroppo non ho fotografie) Audiolounge in mostra presso la sede delle Ex Peterlini, sempre a Rovereto. Nella grande scultura tondeggiante sono inseriti 5 lettori Mp3 collegati a 11 casse che a turno, e in maniera casuale, diffondo brani elettroacustici storici. Interessante la realizzazione, peccato che la selezione di brani, che dovrebbe stando al programma essere una rassegna dell’Arte dei rumori di russoliana memoria, sia semplicemente costituita dall’indice (naturalmente, in riproduzione rigorosamente casuale) dei primi due volumi della collezione An antology of noise edita da Sub Rosa, che molti di voi consceranno. Ecco quindi Ruttmann, Russolo, Luc Ferrari con un Visage V conosciuto proprio perchè inserito in quella raccolta…non so che ne pensate voi, ma secondo me i due bravi artisti potevano pure sforzarsi un po’ di più.
Tornando a Auditory Epode, l’opera Spazio Jens Blauert di Florian Hecker si richiama appunto agli studi di Jens Blauert, scienziato e studioso di psicoacustica, ed in particolare alla sua teoria della bande direzionali, che secondo Blauert ci aiutano, nella percezione uditiva, a raccogliere informazioni spaziali sugli oggetti sonori. Questa la descrizione da programma, quello che ci si trova di fronte sono 8 casse Genelec appese alle quattro colonne della sala.
Il suono che emettono altro non è che il filtraggio dei suoni ambientali raccolto da un microfono collocato all’ingresso. Il filtraggio avviene secondo specifiche dettate dallo stesso Blauert. La cosa che non capisco è se la spazializzazione di cui i curatori ci parlano, questa percezione leggermente alterata dell’ascolto che nelle loro intenzioni fa sì che l’inversione spaziale sonora risulta la regola, insomma, se questa alterazione spaziale della percezione dovrebbe derivare dal fatto che alcuni degli otto canali sono appesi al contrario!
Perchè allora, se è così, noi che impazziamo con patch varie e con lo studio del multicanale…bè, abbiamo sbagliato qualcosa. Bastava girare il cono.
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