Nuovo appuntamento con le nostre interviste. Stavolta tocca ad Andrea Valle, musicista, compositore, ricercatore presso il Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Multimedialità  e l’Audiovisivo e docente nel corso di laurea in Multimedialità e Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo (MultiDAMS), entrambi dell’Università di Torino.
Conosco Andrea da diversi anni, sin dai tempi della prima edizione del volume Audio e Multimedia. In particolare ho sempre ammirato la sua capacità di sperimentare nuove tecnologie in ambito sonoro, nonchè la volontà di condividere la propria esperienza tramite un’attività di pubblicazione non comune in questo ambiente.
Andrea è stato la prima persona a parlarmi di SuperCollider, uno degli ambienti di sviluppo audio più interessanti degli ultimi anni, un software dalle potenzialità espressive immense, che purtroppo rimane sconosciuto a molti sound designer moderni. Questa intervista nasce proprio con l’intento di conoscere meglio le caratteristiche di questo stupendo strumento, per poi muoversi inevitabilmente (e fortunatamente) in territori sonori molto più profondi e interessanti.
Andrea, puoi descriverci brevemente cosa ti ha spinto a studiare un software come SuperCollider? Quali sono le caratteristiche che ti hanno interessato maggiormente?
Musicalmente, i miei riferimento sono due: l’ambito improvvisativo di area rock sperimentale/free jazz e la composizione algoritmica lato sensu (da Cage a Nancarrow a Xenakis). Rispetto a questo secondo punto, mi sono avvicinato alla programmazione perché volevo sperimentare procedure formali per la composizione strumentale. Ho iniziato a lavorare con Csound, e – come usuale in Csound – mi sono trovato a imparare un altro linguaggio (nel mio caso: Python) per generare scores, cioè le liste di eventi che controllano la sintesi del segnale. Tempo differito, assenza di interfaccia grafica, assenza di costrutti di controllo del flusso dell’informazione: Csound, per quanto benemerito, aveva dei limiti per me di rilievo. Visti i miei interessi, mi sono sempre sentito a disagio con i linguaggi a diagrammi tipo Max/MSP, PD, CPS (che noia tirare le righe con un mouse, e che macchinoso scrivere un condizionale), e dunque per me non erano una soluzione.
Un giorno (credo nel 2002) ho visto il mio amico Hairi Vogel che usava SuperCollider per scrivere codice, eseguirlo in tempo reale, generare interfacce grafiche, connettersi in rete con altri computer, e il tutto per di più suonava benissimo. Mi sono comprato un mac usato apposta…(la versione 2 girava solo su Mac Os9). In realtà , il percorso di avvicinamento è stato lungo, non credo di aver usato veramente SuperCollider prima del 2005/06 (sono lento di natura).
SuperCollider ha fondamentalmente tutte le caratteristiche che mi servono: è un linguaggio di alto livello, interattivo, a oggetti, efficiente rispetto alla generazione di audio in tempo reale, dotato di una quantità enorme di unità di sintesi, ha una comunità attivissima e di alto livello. Tra l’altro, ne ho fatto anche degli usi piuttosto eccentrici: ad esempio, lo usato come linguaggio di scripting per generare partiture musicali.
Comunque, non ho ancora risolto definitivamente il problema dell’uso del calcolatore rispetto all’altro ambito che mi interessa, l’improvvisazione. Mi sento ancora molto più a mio agio con il basso elettrico (anche se ho un progetto interessante in proposito).
Un consiglio per chi vuole iniziare a lavorare con SuperCollider: quali sono le conoscenze e/o le skill richieste? Quale è la curva di apprendimento del software?
La computer music (per quanto vago sia il termine) richiede di per sè parecchie competenze: musica (qualsiasi sia la musica che fai), acustica (devi sapere cosa è un’onda), teoria del segnale digitale (devi sapere cosa vuol dire rappresentarla), musica elettronica (l’idea di patching nasce dall’ambito analogico, così come le tecniche di sintesi). In SuperCollider si devono aggiungere competenze di programmazione a oggetti, oltre ad aver chiaro che cosa si intende con architettura di rete. SuperCollider prevede infatti due componenti, l’interprete del linguaggio e il server audio. Si programma nel linguaggio e dall’interprete che interpreta il codice scritto si controlla il server audio. Insomma, le conoscenze non sono poche. Soprattutto, uno deve aver chiaro che non si può ovviare alla questione della programmazione e della scrittura del codice. Tra l’altro c’è anche un falso mito che spesso allontana da SuperCollider, quello che assume che la GUI sia più comprensibile o facile o musicale della scrittura. Ma va sfatato.
In ogni caso, la curva è – tipicamente – piuttosto ripida, soprattutto all’inizio: non è agevole tenere insieme tutti i pezzi e le loro relazioni. Anche perché ci sono molte possibilità diverse per affrontare i problemi compositivi: ad esempio, mi vengono in mente quattro modi differenti per gestire lo scheduling degli eventi nel tempo attraverso SuperCollider.
In più, visto che si programma, non ci sono scorciatoie: o uno è intenzionato a capire quello che fa, o è meglio lasciar stare. È per quello che non amo i tutorial di SuperCollider che lì per lì ti stupiscono con effetti (audio) speciali: è inutile, il passaggio che uno deve fare, quantomeno dalla mia limitata e personale esperienza, è quello che ho descritto nel manuale italiano.
Ma quando uno supera lo scoglio iniziale è un vero piacere lavorare. La documentazione è completa, e sia essa che il codice sorgente sono agevolmente accessibili dall’editor. Diventa estremamente semplice interfacciarsi con il programma e il linguaggio. Inoltre, lo consapevolezza analitica che consegue dall’esercizio con SuperCollider per me è stata molto importante.
Sei impegnato in un’attività di divulgazione di SuperCollider non solo come utente ma anche come docente, hai organizzato workshop e scritto un manuale. A chi consiglieresti di utillizzare SuperCollider e in quali ambiti?
Non amo l’apologetica, e dunque cerco di non fare apostolato. Ci terrei però a dire che consiglio SuperCollider potenzialmente a tutti, nel senso che non credo nella divisione del lavoro: quella cosa per cui ad esempio se sei un musicista non sei un programmatore. Come diceva Jean Tinguely a Niki de Saint Phalle, il sogno è tutto, la tecnica è niente. Detta da Tinguely, è una frase impressionante. Aggiungeva Tinguely: la tecnica si può apprendere. Questo è il punto. Ognuno costruisce la propria tecnica in funzione dei propri problemi e e delle proprie necessità .
Consiglierei SuperCollider a tutti quelli che sono orientati ad una prospettiva macchinale più che strumentale. Lo strumento lavora secondo una logica del tipo stimolo-risposta: premi un pulsante, succede qualcosa. La macchina è un soggetto a cui è delegata una competenza, fa qualcosa con un certo grado di autonomia. Tipicamente i linguaggi a diagrammi (à la Max/MSP, PD, etc.) sono più adatti per la rapida prototipazione di relazioni tra unità di elaborazione e per logiche di tipo strumentale. SuperCollider è un’occasione straordinaria per chi è interessato alla descrizione di processi e alla generalizzazione di sistemi e procedure. In generale, lo consiglierei per installazioni, performance dal vivo, progetti multimediali; non lo consiglierei a chi utilizza una logica di tipo concretistico, ad esempio montando l’audio sul modello del video o a chi utilizza molti software in maniera approssimativa, secondo una logica del basta che funzioni (logica contro la quale non ho proprio nulla da dire, ma che  con SuperCollider è soltanto frustrante).
Puoi descrivere alcune delle opere che hai realizzato tramite SuperCollider?
Ho utilizzato SuperCollider per progetti molto diversi.
In primo luogo, mi è servito per implementare GeoGraphy, il mio sistema per la composizione algoritmica, che è sostanzialmente basato su un’idea di sequencing non-lineare. Sequenze di oggetti sonori sono generate a partire da grafi. Questi grafi sono distribuiti in uno spazio esplorabile, e l’esplorazione modifica le sequenze stesse. Inizialmente implementato in Python e usato per il tempo differito, attraverso SuperCollider può operare in tempo reale. Si può controllare attraverso il codice stesso (tipo live coding), attraverso la GUI e attraverso un suo micro-linguaggio di scripting.
Attualmente, insieme a Mattia Schirosa e Vincenzo Lombardo, stiamo estendendo il sistema in modo da utilizzarlo per la simulazione di paesaggi sonori a partire da un database di campioni.
Uso SuperCollider anche per progetti non legati alla musica elettronica dal vivo. Uno dei miei problemi con la composizione strumentale radicalmente algoritmica (non mi interessa la composizione computer-assisted) è sempre stato lo scoglio rappresentato dalla notazione. Un sistema integrato per la composizione algoritmica deve includere la generazione di notazione, pena una radicale asimmetria di flusso nel processo composizione: rapidità macchinale nella generazione dei dati, lentezza manuale nella trascrizione in notazione. Ho risolto il problema attraverso l’idea di linguaggio di incollatura: un linguaggio che è in grado di scriptare altre applicazioni e di tenerne insieme i risultati. Dopo Python, ho usato SuperCollider, chiaramente per la sua vocazione audio, come gluing language. Nelle Lamine d’Antigone per 6 voci, SuperCollider prima chiede a Praat di analizzare un file audio contenente una voce che legge in greco un brano dall’Antigone, quindi importa i dati d’analisi, li elabora per ottenere dati di controllo per le sei voci, infine genera un file contenente codice di LilyPond e lo compila con lo stesso programma.
Il risultato è notazione tradizionale. SuperCollider incolla le diverse applicazioni (come potrebbe fare Python) e in più mi permette di sonificare i dati per capire che succede (e, tra l’altro, anche di visualizzarli). Nelle Scialoje per violoncello solo l’idea è stata quella di tenere un log della mia attività di scrittura sulla tastiera, a partire da un insieme di poesie di Toti Scialoja. In sostanza, apro un documento di SuperCollider e scrivo una poesia. Ho definito diversi schemi di mappatura tra caratteri e altezze: la scrittura della poesia sulla tastiera diventa una vera esecuzione musicale dal vivo, e mi permette ovviamente di controllare cosa succede in termini di risultato musicale complessivo. I dati di log sono quindi stati utilizzati per generare la notazione attraverso Nodebox.
Uno dei pezzi delle Lamine è sul mio myspace (per le Scialoje si attendono ancora volontari coraggiosi…). Le due partiture sono qui: http://www.fonurgia.unito.it/andrea/wikka.php?wakka=InstrumentalWorks.
Un paper sull’idea di composizione algoritmica integrata è qui: http://nime2008.casapaganini.org/documents/Proceedings/Posters/253.pdf. Un report interessante rispetto a LilyPond è qui: http://valentin.villenave.info/The-LilyPond-Report-10.
Attualmente sto sviluppando un progetto che prevede di utilizzare SuperCollider per controllare un insieme di percussioni motorizzate. Ogni percussione include un risonatore eccitato in vario modo da un motorino DC. Il progetto a cui sto lavorando si chiama Rumentarium e intuibilmente utilizza materiali di scarto e di riciclo. Una delle idee di partenza è quella di costruire hardware sonoro molto molle, di rapida prototipazione, una sorta di organologia residuale, estendendo l’improvvisazione dall’esecuzione dello strumento alla sua costruzione.
Il setup prevede 18 percussioni i cui motorini sono controllati da tre microcontroller Arduino. Attraverso una libreria che definisce un’interfaccia tra Arduino e SuperCollider, posso utilizzare un controller MIDI per gestire live la performance. A tal fine ovviamente basterebbero in analogico dei potenziometri direttamente connessi ai motorini, ma attraverso la dimensione computazionale le possibilità di controllo si moltiplicano. Così, passando attraverso SuperCollider posso agevolmente fare un log della mia performance, per poi rieseguirla in un secondo tempo in automatico. Posso definire algoritmi che controllino le percussioni. Posso entrare in SuperCollider con il basso elettrico o con altri segnali (una stessa registrazione di ciò che sta succedendo acusticamente), analizzare il segnale in input, e utilizzare i dati risultanti dall’analisi per controllare il setup percussivo. In questo momento sono in fase di sperimentazione. C’è un po’ di documentazione qui: http://www.flickr.com/photos/vanderaalle/sets/72157612060940724/. Non di buona qualità (soprattutto audio), ma alcuni video sono sul mio canale YouTube.
Ci terrei anche a ricordare il progetto VEP, dedicato alla ricostruzione in realtà virtuale del Poème électronique. È un progetto europeo, al quale ho lavorato con Vincenzo Lombardo (che ne è stato il direttore). Nell’installazione risultante lo spettatore, attraverso visione stereoscopica e audio binaurale, può muoversi nello spazio del Padiglione Philips mentre ascolta le tre tracce del Poème varèsiano muoversi lungo l’insieme degli altoparlanti. Tutta l’implementazione del sistema di audio binaurale in tempo reale è stata realizzata in SuperCollider da Stefan Kersten.
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bella intervista…molto interessante la parte sul sistema integrato per la composizione …anche se non ho ben capito, e colgo l’occasione per chiedere ad Andrea, cosa intende per “composizione strumentale radicalmente algoritmica”…
grazie
Fabio Selvafiorita
Ciao Fabio,
Grazie. Direi che, rispetto alla scrittura strumentale, vuol dire due cose, interrelate. La prima è che il processo compositivo deve essere retto integralmente da una procedura formale. Esistono diversi gradi (come sai benissimo) con cui si può pensare l’apporto del calcolatore alla composizione. Ad esempio, si può organizzare architettonicamente la composizione e quindi delegare al calcolatore il compito di realizzare alcuni o tutti gli elementi di quell’architettura (ma non l’architettura stessa). Spesso il compositore che fa uso di strumenti di composizione assisitita definisce alcuni punti di intervento algoritmico, mentre altri sono pensati non necessiarmente in termini procedurali. A me interessa invece una prospettiva per cui, in fondo, si compone sempre il sistema. Detta icasticamente: “premi il pulsante e guarda il risultato”. Una sorta di allografizzazione, per dirla alla Goodman, spinta, per cui dalla notazione dell’opera si passa ad una notazione del sistema. Ne consegue la seconda cosa. Anche la notazione deve essere integralmente generata dal sistema. Si installa così un loop per cui il lavoro di formalizzazione è immediatamente (o quasi) seguito dal controllo della notazione in uscita. Tra l’altro, la generazione di notazione impone una definizione analitica della funzione di mappatura deei dati compositivi in simboli notazionali.Tempo a parte, la trascrizione a mano di dati generati algoritmicamente in notazione musicale tende tipicamente a a imporre soluzioni ad hoc.
finalmente ho la possibilità , tramite questa intervista, di conoscere un esperto di composizione algoritmica. Ciò che mi viene spontaneo chiedere, dato che questo tipo di procedure ha diversi decenni di vita, è se esiste una consapevolezza estetica dietro tutto questo. Penso di dover chiedere ad Andrea Valle cose del tipo: cosa intende per musica, per arte, perchè questa musica è interessante, se può entrare in gioco il principio di piacere o una qualche forma di bellezza, di gusto. Se si tratta, nel caso della composizione algoritmica, di un modo per indicare i limiti dell’espressione estetica a costo di abbandonare ogni principio di godibilità , direi anche di umanità in senso fenomenico. Ecco, vorrei che ci fossero prese di posizione esplicitamente “politiche”, dato che potremmo parlare all’infinito della efficacia di un software piuttosto che di un altro, o della potenza di un processo algoritmico.
In ultimo un appunto: “il sogno è tutto, la tecnica è niente”. Questo tipo di affermazione la ritengo profondamente irrazionale, poichè si può sognare di tutto, ma senza una tecnica adeguata ai fini non si produce un bel nulla. Proprio per questo esiste la divisione del lavoro: difficilmente potrei avere il tempo, nella complessità del mondo attuale, di essere allo stesso tempo un pilota acrobatico e un ingegnere aeronautico. DIco questo perchè almeno nella mia esperienza musicale l’apprendimento è quotidiano, e costringersi ad imparare linguaggi di programmazione spesso segna una fase di arresto nei processi più marcatamente creativi. E’ un fenomeno a cui ho spesso assistito, che attribuisco a fattori meramente contingenti…Esistono inoltre diverse e validissime esperienze di collaborazione interdisciplinare tra musicisti, ingegneri, tecnici, scienziati…certo il sogno è tutto, ma è una faticaccia ricostruirlo in maniera soddisfacente…
Grazie Andrea, chiarissimo. In effetti ho visto ora che hai parlato anche di sonificazione…
Te lo chiedevo perchèè la questione “notazione” è problematica nei sistemi-assisted proprio in relazione alla non proceduralità di certi interventi di carattere compositivo. Non c’è bisogno di ricordare che, indipendentemente dagli approcci assisted e/o dai problemi di score-generation dipendente dai linguaggi Music N tutti gli approcci puramente algoritmici (da Xenakis, Herbert Brün a Di Scipio) hanno sempre avuto la tendenza a reinterpretare il sistema procedurale come se questo fosse già parte integrante della composizione. E’ una differenza sostanzialmente estetica non trovi?
Nonostante questo si sta cercando, con un po di fatica, anche perchè la questione è certamente un po delicata, di integrare la generazione di partiture nei sistemi assisted, o meglio, se vogliamo, di formattazione del testo musicale…mi viene in mente soprattutto http://kiliansprotte.de/lisp/ sta cercando con la library ksquant di estendere la ENP-Score-notation in PWGL per creare un collegamento forte con le procedure (PWGL a parte lo avevo visto anche “pilotare” Sibelius in modo tale da generare automaticamente una partitura..ma non mi ricordo da quale ambiente…era piuttosto impressionante) . Da quanto avevo visto poi in Open Music c’è una library che esporta le score (anche con multimetrie molto complesse) generate in lilypond http://karim.haddad.free.fr/pages/downloads.html . Non l’ho ancora testata mo ho visto dei risultati interessanti.
Grazie ancora per il tuo intervento e in ogni caso ancora complimenti per il tuo lavoro
Ciao Luigi, mi costringi a entrare nel merito di motle questioni. E allora temo che vi annoierete di conseguenza…
Prima questione:
– esiste una consapevolezza estetica dietro tutto questo?
A questa domanda rispondono (più che il mio nulla) le opere e gli scritti (significativamente abbondanti) di compositori così diversi come Xenakisì, Cage, Brün. Esiste talmente tanto una consapevolezza estetica che in anni di riflusso come questi spesso abbiamo assistito all’insofferenza di taluni proprio per questo eccesso di consapevolezza (“ma quanta teoria… ma scrivano musica invece che trattati di estetica”, e così via).
Secondo problema:
– cosa intendi per musica, per arte, perché questa musica è interessante, se può entrare in gioco il principio di piacere o una qualche forma di bellezza, di gusto?
Questa è una domanda insidiosa. La risposta scontata è: sì, c’è della bellezza. Molto banalmente, io faccio la musica che nei miei limiti posso e debbo fare, e aderiscono ai miei valori, perché mi piace. Dunque, opero politicamente in quanto esteticamente e viceversa perché implicito dei valori nella mia prassi. Quali? Credo siano venuti fuori. Ad esempio un’idea di composizione come riflessione sull’udibilità del mondo, come rapporto tra il suono e il pensiero, come conversione sempre in eccesso e in difetto tra morfologie di domini differenti, come allesttimento di processi che mi eccedono e dai cui imparo. Dopodiché in effetti mi sono concentrato su una dimensione “prassica” perché non volevo fare una estetica di me stesso o una dichiarazione di poetica.
Ma l’insidia sta nel fatto che la domanda che poni è così carica di storia e di estetica da non permettere di uscire dal suo perimetro. Potrà mai essere scontato cosa possa essere l'”umanità “, il “gusto”, la “godibilità “? Mentre la prima categoria apre il dibattito addirittura ad un problema antropologicamente generale, le altre due definiscono invece una circonferenza molto angusta: io non parlo questo linguaggio, non riconosco né al “gusto” né al “godibile” uno statuto di rilevo nella mia estetica. Tra l’altro il godibile assomiglia pericolosamente (certo, dal mio punto di vista, o d’ascolto) all’orecchiabile. E si potrebbe ragionare su come è fatto questo orecchio che orecchia, sull’orecchiare come modalità d’ascolto.
Insomma, cosa vuol dire “godere” con “gusto” e “umanamente”? Cosa vuoi dire tu?
Sull’efficacia del software: l’efficacia commisura i mezzi ai fini, è una misura dell’adeguatezza dei primi per raggiungere i secondi. La discussione sull’efficia del software dunque non è “an-estetica”, ma al contrario implicita dei fini rispetto a cui si rapporta. Per me Finale, Cubase, Reaktor, Open Music, ProTools, Max/MSP, CSound (tanto per citare ostensivamente i campioni migliori di alcune categorie) sono totalmente inefficaci. Credo che voglia dire qualcosa. Così, e pur concordando sulla noia assoluta introdotta dall’acribia degli appassionati del software, la discusssione sul software è come la Fisica di Aristotele per Heidegger: implicita la sua metafisica più della Metafisica stessa.
Sulla citazione di Tinguely. Due cose di cornice. Primo, è Tinguely che lo dice, cioè uno che costruisce macchine talmente funzionanti da essere in alcuni casi capaci di autodistruggersi. Dunque, il problema tecnico è ovviamente centrale per Tinguely, con la meccanica classica c’è poco da scherzare. Secondo, c’è la seconda parte della citazione, che ometti pericolosamente: la tecnica si può imparare. Cioè, il problema della tecnica è di distinguersi dal tecnicismo, quella cosa per cui tra ragazzini metallari si discetta se un chitarrista sia più bravo dell’altro in funzione del numero di note prodotte al secondo. Che cos’è la tecnica? Di nuov impliciti il concetto. Allora, la mia risposta esplicita è: un insieme di saperi di natura localmente sistematica atti alla risoluzione di uno specifico problema. Dunque, la tecnica compositiva è quell’insieme di saperi che valgono in un certo contesto locale (per quel pezzo, per quella serie di pezzi, per quel tipo di strumento, e così via) in funzione del problema compositivo che ci si pone. L’adeguatezza della tecnica è di nuovo la correlazione tra i mezzi e fini, tra il problema e le soluzioni praticabili. Non esiste la tecnica in sé: la tecnica è niente. Come notava Ferraris, la tecnica è come il segno: “et est et non est”. Il segno “è” nel momento in cui sta per qualcosa d’altro, ed in quel momento dunque “non è” più. Così la tecnica: “è” nel momento in cui è relata al problema che risolve, e a quel punto “non è” più. Il tecnicismo -la tecnica in sé- sposa invece soluzioni di problemi che altri si sono posti, e dunque è letteralmente alienante. E allora Tinguely, il cui lavoro allestisce un gran teatro di macchine, artista che ha accumulato un insieme di saperi del tutto idiosincratico, dice alla Niki: tieni a mente il fine (il sogno), il mezzo (la tecnica) non c’è ancora (è niente). Lo dovrai e potrai costruire (la tecnica si apprende). Irrazionale? Secondo me è razionalissimo e liberante.
Infine: che la divisione del lavoro esista è un fatto. Lungi da me poi sposare una prospettiva solipsistica per cui l’artista è uno e fa da solo. Ho citato appunto molti progetti collaborativi (da GeoGraphy al VEP). Audio e multimedia l’abbiamo scritto in due. Ma il de facto non implica il de iure. Non saprei citare un caso di un pilota ingegnere (non mi sembra un caso così difficile, i grandi piloti di Formula 1 ne sanno tantissimo di motori) ma è invece agevole ricordare che Xenakis ha lavorato con Le Corbusier (non proprio un geometra di provincia) e Cage è stato un esperto di livello mondiale sui funghi.
Io ho imparato quello che so di acustica, teoria musicale, musica elettronica, programmazione, solo perché mi interessava fare musica. Non ho una formazione “tecnica” nel senso usuale del termine. Ma ho imparato quanto so di programmazione perché mi serviva per comporre. Oramai è difficile che possa distingure tra momenti più o meno creativi. È tutto un unico processo, molto lento, che alla fine porta alla composizione. Per me la composizione è come il compostaggio: butti dentro materiale eterogeneo, sotto le giuste condizioni e con il giusto tempo, alla fine esce qualcosa di buono.
era porprio quello di cui avevo bisogno: una risposta esaustiva, ricca di riferimenti e di spunti per una breve e spero non noiosa discussione. Tengo a precisare che il mio commento precedente nasce da una serie di esperienze nel campo della performance dal vivo, della ricerca musicale, del mondo discografico, dell’applicazione della musica a contesti anche commerciali.
Ecco, innanzitutto gli scritti di cage e xenakis: il fatto è che in molti casi i loro scritti si sono “mangiati” la musica. Le filosofie hanno invaso il campo del fare musicale. Ascolto volentieri xenakis e cage, ma hanno pure preso delle enormi cantonate proprio in ambito musicale. Le ultime opere di Xenakis, o alcuni esperimenti di Cage non sono proponibili come musica, a questo proposito la posizione di Ligeti è illuminante. Siamo in un momento, purtroppo, in cui il peggio di Xenakis e di Cage è una sorta di scusante per la ricerca musicale più autoreferenziale che si sia mai conosciuta. Le orecchie vanno sempre tenute attente: una mia insegnante di logica matematica, diceva sempre: “scollegate il cervello, altrimenti non capirete nulla”. Bisogna a un certo punto scoprire l’intelligenza che è nel suono (parafrasando varése) piuttosto che ricordare scritti di estetica o processi compositivi, che nulla hanno a che fare con le orecchie umane. Oppure bisognerebbe saper formulare estetiche al passo con termini come “godibilità ” che giustamente riconduci all'”orecchiabilità “. Qui entriamo in politica: e la mia posizione è che la godibilità non va mai sacrificata a principi compositivi o filosofici. Lo dico da laureando in filosofia. Quando dico “umanità ” mi riferisco al modo di percepire proprio degli umani: banalmente, al fatto che ci sono dei livelli di attenzione, delle soglie di dolore, possibilità di apprendimento, tipologie di risposte a determinati stimoli. Possibilità di annoiarsi o di divertirsi, e anche di riflessione. E se fosse possibile una musica “orecchiabile” ma non per questo stupida? Per me sarebbe il massimo, ed è ciò per cui, secondo me, val la pena di continuare a far musica. Secondo te avvicinarsi al “gusto” e alla “orecchiabilità ” è quasi un rischio: non è un rischio, se gusto e orecchiabilità significano chiarezza, fatticità sensibile di un pensiero musicalmente orientato. La tradizione è contraddittoria, potrebbe dar ragione a chiunque, a Puccini, e a Xenakis: sta a noi decidere verso quali direzioni andare facendo tesoro dell’esperienza senza preconcetti. La politica, l’estetica, il discorso sulla musica è molto potente, al punto di arrivare a creare situazioni come quelle dell’ultimo concorso iceberg di bologna: l’apoteosi dell’insensato, la catastrofe di ogni gusto, la mera incompetenza premiata in nome di un Cage, che si starebbe rivoltando nella tomba.
Concordo pienamente nella tua definizione di tecnica: rilevo però che tu tendi a nullificarla, dicendo che è come il segno, ecc. Un segno però non si presenta in una certa forma senza nessun motivo. E’ sempre espressivo e porta con sè molto di più di quello che si vorrebbe, esiste un inconscio. Dico: la tecnica è una potenza che può deviare intenzioni “umane” nel senso che ho spiegato. C’è un rischio di essere plagiati dai mezzi e dai processi che vengono innescati, se non si hanno chiare motivazioni e chiari orientamenti artistici, poichè siamo nel campo delle arti. Il richiamo al sogno, alla “nullità ” del mezzo tecnico possono ribaltarsi in un incubo in cui tutto è processo senza inizio e fine, privo di ogni intelligibilità . Tu stesso riconosci che non tutti i software sono uguali, quindi non sono proprio “nulla”..L’adeguazione del mezzo al fine vale quando appunto c’è un fine, una chiarezza di intenti, altrimenti il mezzo (potente) stravolge e snatura il fine (debole). E non so, stando a quello che dici, quanto sia forte il tuo fine giacchè parli di “processi che mi eccedono”. Considero dunque potente la tecnica attualmente a disposizione e bisognosa tanto di competenze quanto di orientamenti. Certo, tutto questo si può de facto trovare all’interno di una sola persona…non è il mio caso di sicuro, forse perchè i miei riferimenti musicali sono ormai distanti anni luce da Cage e Xenakis.
Ti ringrazio per avermi risposto (e ringrazio giampaolo per l’intervista), è stato importante perchè ho potuto approfondire dall’interno il mondo della composizione algoritmica, i suoi intenti e le sue prospettive.
Fabio, concordo del tutto, chiaramente il problema dell’integrazione della notazione non è in alcun modo separato dalle opzioni estetiche. E questo per un semplice fatto: che la notazione musicale non è un sistema formale ma il risultato dell’accumulazione storica della prassi scrittoria. Dunque, non mi è mai parso possibile pensare alla generazione della notazione come ad un semplice problema di conversione. C’è una retroazione, un anello, tra ciò che si può scrivere e ciò che si vuole comporre. Proprio per questo motivo sono sempre scettico nei confronti di una generazione della notazione che operi in automatico a partire da dati compositivi espressi in un altro formalismo. La prassi materiale del compositore è anche scrittura, e duqnue la scrittura (notazione) deve essere pensata come momento della composizione. Io faccio così. Però, è vero che ci sono recentemente molti approcci interessanti. Oltre a quelli che citi, Trevor BaÄa sta implementando una libreria in Python per generare codice LilyPond. Il progetto si chiama Abjad, è ancora in fase di sviluppo, ma è abbastanza impressionante.
Una critica, spero propositiva, all’intervento di Luigi:
Contrariamente a quanto sostieni a me pare di intravedere molta filosofia nella tua risposta. Innanzitutto perchè mi pare che tu riduca ad un ascolto ideale, sia pur di una certa complessità , l’attività compositiva, che non intendi quindi in quanto frutto di un lavoro sulle tecniche del comporre, ma sulle modalità di ascolto. Sono due cose molto diverse, direi due modi differenti di intendere la Musica.
La musica di Xenakis, Brun o Curtis Roads è fatta di processi compositivi, tecniche (e la tecnologia non è altro che una tecnica tanto quanto è la formalizzazione di regole per il contrappunto armonico tonale, quindi di fatto riguarda, in questo contesto, la musica e non la filosofia) che interrogano continuamente anche i limiti della percezione (ed in questo sta anche il rinnovare de senso trascendente della musica, che è una costante della storia musicale). Per me sono orecchiabili (nel senso che la mia attenzione si attiva meglio con queste che con altre condizioni) tutte quelle esperienze sonore e musicali che si riconfigurano continumente, proponendomi inedite e inudite possibilità formali. Tutto questo “chiedere” e domandare non riguarda la filosofia, ma la musica e i fatti di coloro che la musica l’hanno prodotta, composta attraverso il rinnovarsi continuo delle loro tecniche. I processi in musica sono ineludibili. Qui si inserisce il compositore. Ti posso parlare di un’esperienza personale che forse chiarisce la mia posizione quando questa ha a che fare con certi processi di tipo “algoritmico”: spesso, ascoltando il composto mi meraviglio di certe soluzioni inattese ancor di più di quelle che io invece andavo desiderando consciamente, magari seguendo i vincoli che facevo interagire con il mio pregiudizio di ascoltatore (p.s. non lo biasimo :-). Ecco che nasce quello che può apparire come un paradosso ma non lo è affatto: spesso desidero più ciò che non voglio rispetto ciò che mi ero ripromesso di ottenere secondo la fallacia della mia volontà (Donatoni insegna). Il compositore quindi non ascolta e non si emoziona? Niente affatto. L’emozione nasce anche dalla possibilità di organizzare, comporre appunto, questa dialettica con gli strumenti che la tradizione, informatica o meno, ci mette a disposizione. L’emozione per il compositore (sia chiaro che si parla di esperienza compositive algoritmiche tipo Xenakis) è anche l’appagamento di un desiderio inatteso, meraviglioso. L’ascoltatore? Who cares dal momento che lui ha la “fortuna” di scegliere cosa e quando ascoltare? Perchè con-fondere la composizione con un ascoltatore ideale? Per assimilare anche lui a socio-logiche mass-mediali o farne uno psicologo della percezione?
con simpatia, ti rimando a questo video
http://www.youtube.com/watch?v=9p50t3zfC58&feature=related
Fabio Selvafiorita
Luigi, solo alcune rapide precisazioni:
– il problema dell’ultimo Xenakis è esattamente il contrario di quello che sembri adombrare. Infatti l’ultimo Xenakis lavora senza formalizzare esplicitamente un modello formale per la composizione, affidandosi a una sorta di intuizione che discende dalla sua esperienza precedente. Il limite di quei lavori sta proprio nell’assenza di rigore che conduce a esiti lontani dalla sfida all’inudbile (a ciò che non è stato ancora ascoltato, come direbbe Schaeffer) portata dai pezzi precedenti.
– francamente non credo per nulla che gli esiti di Iceberg dipendano dalla pervasività di una ideologia cageana (magari…). Primo, perché da ciò che ho sentito e letto dei vincitori via myspace (a partire proprio da soundesign) non mi pare ci sia molto da spartire con Giovanni Gabbia. Secondo, un giurato come Fabrizio Festa è lontano anni luce (nella poetica come nei lavori ) da una opzione “sperimentale” novencentesca (in qualsivoglia modo la si possa pensare).
– mi leggi sempre a spizzichi. Non ho detto che la tecnica è nulla, Ho detto: et est et non est. Prima (o meglio: insieme) al suo annullamento è una positività . Mai negato questa positivitÃ
Grazie per la dritta Andrea. Non conoscevo il lavoro di BaÄa.
cercherò di essere molto sintetico, e di rispondere sia a fabio che ad andrea. Innanzitutto, ho esordito chiedendo cosa fosse per andrea la musica, l’arte, se val la pena di rinunciare ad ogni orecchiabilità (nel senso che ho chiarito), ad ogni intelligente compromesso con il mondo del passato e del presente, col suono. Il perchè di questa domanda nasce da alcune mie radicali convinzioni e da esperienze simili a quella recentissima del concorso iceberg. Se determinate involuzioni nell’inascoltabile sono state possibili, è perchè nel mondo della musica colta (di cui Festa è pur sempre un esponente in quanto critico, giornalista, compositore, non è un gigi d’agostino per intenderci) l’ideologia, la teoria ha colonizzato ogni dimensione relazionale ed espressiva del fare musicale. Detta brutalmente: il fatto che un’opera esprima un pensiero è più importante del rapporto tra quel pensiero e ciò che arriva alle orecchie. Il pensiero compositivo può essere arbitrariamente deterministico, o rigorosamente caotico, ma questo non mi interessa affatto quando mi siedo in una sala da concerto. Lì ci sono io, ci sono altri come me, ci sono dei luoghi di esperienza, c’è una memoria e ci sono anche aperture al nuovo. Appunto: certe tendenze compositive sono da rivedere profondamente, sono da chiarire in ciò che propongono all’ascoltatore. C’è da rimettere in campo il piacere, un’indagine sul piacere, sulla sensualità …Di recente ho partecipato alla presentazione di opere “musicali” elaborate con Python…il compositore perdeva tempo nel dire che l’intera composizione poteva essere riportata su carta evitando le memorie magnetiche, che nel tempo si deteriorano. Il fatto è che non c’era nulla di musicale in quelle opere, a meno che non ci si voglia sforzare di chiamare musica qualunque stridore sintetico prodotto con metodo…e di scuse il nostro tempo ne ha innumerevoli. Duecento anni fa si definiva la bellezza come “perfectio cognitionis sensitivae”…definizione immediatamente archiviata. Secondo me perdendo molto e rischiando ancora di più.
Concludo non citando Ligeti e il suo sarcasmo contro Cage o Xenakis, ma Norbert Elias.
“Ciò che vi è di singolare nelle fantasie innovative nella forma di opere d’arte sta nel fatto che si tratta di fantasie che si accendono con un materiale accessibile a molti…….tutta la difficoltà del fare arte si mostra quando si cerca di superare il ponte della deprivatizzazione, della “sublimazione”. Per compiere tale passo gli uomini devono trovarsi nella condizione di sottomettere la capacità di fantasticare all’autonomia di una forma materiale. Debbono conferire ai loro prodotti, oltre alla rilevanza dell’Io, quella del Tu, del Voi e del Loro….Il confluire delle fantasie in un materiale senza che vadano perse spontaneità , dinamica e forza innovativa, richiede capacità che superano il semplice fantasticare. Richiede una fondamentale confidenza con l’autonomia del materiale, quindi una grande preparazione nel trattarlo. Tale preparazione è causa di determinati pericoli. Si possono ledere infatti la forza e la spontaneità delle fantasie, cioè la loro autonomia. La si può a volte indebolire del tutto, anzichè svilupparla ulteriormente nel rapporto col materiale.”
Spero che su questo siamo d’accordo tutti…Non ho intenti polemici, ho molta stima e ammirazione per il lavoro che andrea o fabio portano avanti. Ritengo però che nel mondo musicale è urgente riattivare alcuni concetti, come quello di gusto, e un sano rapporto con la filosofia, che è cosa ben diversa dalla hybris filosofica che pretende di giustificare l’ingiustificabile e di sostituirsi all’esperienza dell’ascolto.
La posizione di Elias, per me, non è condivisibile. Perchè somiglia più ad una dichiarazione di poetica che ad un tentativo di comprendere (quale dovrebbe essere il compito di un’estetica) la molteplicità delle esperienze artistiche.
Un’ultima cosa, io non ho ancora capito che cosa intendi per orecchiabilità e esperienza d’ascolto. A me se parli di musica basata su esperienze d’ascolto viene in mente la musica spettrale (effettivamente fondata su u analisi profonda delle modalità d’ascolto)…ti riferisci ad esperienze di questo tipo?
A me sembra di aver chiarito cosa intendo per orecchiabilità , e poi ho parlato di esperienza dell’ascolto riferendomi al fatto che la musica va ascoltata nel suo sollecitare i sensi, nella sua sensualità ed espressività , nella sua immediatezza. Quando ascolto musica, non mi va più di annoiarmi, di provare fastidio o di attendere il momento in cui finisca. Piuttosto vorrei divertirmi, o ridere, o entrare in empatia con qualcosa di emotivamente rilevante.
Vedi Fabio, abbiamo visioni e prospettive inconciliabili. A me interessa enormemente l’ascoltatore e il suo scegliere. Voglio che la musica sappia per l’appunto riguardare tanto chi la scrive quanto chi la ascolta, è lì la sfida. Non mi interessa un’estetica che sia una specie di ufficio licenze poetiche, se non ideologiche.
Grisey è di sicuro orecchiabilissimo!
Luigi, tu le pensi inconciliabili, io no. “Sensi, espressività …entrare in empatia con qualcosa di emotivamente rilevante” sono questioni che per me hanno un’importanza fondamentale. Di una musica mi interessa la sua capacità di produrre emozioni ma, come disse Petrassi, “il mio riserbo è nella qualità delle emozioni da produrre…”. Sicuramente non ci intendiamo sulla “qualità ” di queste emozioni.
Quando dici: “non mi va più di annoiarmi, di provare fastidio o di attendere il momento in cui finisca” devi sempre fare riferimento a quelli che inevitabilmente sono i tuoi, poi i miei e i suoi limiti culturali. Non puoi prendere le tue categorie d’ascolto e adattarle a quelle di tutti. Perchè queste qualità sono il risultato di una “sedimentazione” percettiva che è differente da individuo a individuo. Quindi non la “espliciterai” mai l’orecchiabilità se la definisci con questi termini. Ma soprattutto, tutto questo, non ci dice assolutamente nulla sulla musica di Cage, Valle o Xenakis quindi in questi contesti, dovremmo sforzarci di mettere da parte il nostro ego, e cercare di sfruttare al massimo l’occasione per comprendere anche la qualità di queste emozioni che vuol dire chiedersi in qualche modo perchè persone hanno deciso di dedicare la loro vita a questo…a meno di voler negare che altri possano emozionarsi in modo differente dal tuo (questa si, prospettiva inconciliabile e anticamera dell’intolleranza) 🙂
caspita non volevo aprire una di quelle discussioni da facebook….
vedi Fabio, il tuo discorso non fa una piega: è civile, onesto, tollerante, soprattutto aperto al progresso delle forme musicali e della ricezione. Sono d’accordo fino al punto in cui tutto questo non diventa una scusa, e oramai è quasi soltanto una scusa. Le sale da concerto si svuotano, la musica contemporanea agonizza, gli spazi dedicati alla ricerca si restringono e la responsabilità , in parte, è proprio degli addetti ai lavori. Certo che non posso prendere le mie categorie d’ascolto e adattarle a quelle di tutti! Appunto! E’ proprio il nucleo del mio discorso! Non capisco perchè io in quanto ascoltatore debbo adattarmi a chi compone, mentre chi compone può rifilarmi quello che gli pare…Forse perchè l’ascoltatore non può capire? Non possiede abbastanza sedimenti? E’ una pretesa forte. E se esistesse una comunità di ascoltatori in grado di svelare le truffe spacciate per ricerca musicale? Secondo me sarebbe un bel passo in avanti! E sarebbe auspicabile da parte dei compositori (me compreso) una sempre maggiore attenzione in questo senso, proprio perchè dobbiamo mettere da parte il nostro ego! Insomma, il pubblico può anche fischiare, e a ragione, un’opera. Ma vedi, sarebbe il caso di fare esempi concreti (e qui lo eviterei), magari abbiamo gli stessi gusti e le stesse idiosincrasie…più o meno, è ovvio!!!
Luigi, mi dilungo perchè l’argomento mi interessa. Se non ti va di continuare possiamo anche fermarci qui.
Luigi:
“Non capisco perchè io in quanto ascoltatore debbo adattarmi a chi compone, mentre chi compone può rifilarmi quello che gli pare… ”
Fabio:
Perchè come ascoltatore tu puoi sempre scegliere quello che vuoi. Puoi prendere e andare in unnegozio e chiedere un etto di Dean Martin, unchilo di Jacob Kierkegaard 400 grammi di Meshuggah.
Come compositore puoi scegliere sempre di ascoltare ciò che vuoi (quei tre sopracitati provengono direttamente dal mio iPod!!!) ma poi, mentre componi, probabilmente senti più forte il legame con una determinata tradizione, cultura e ti assumi la responsabilità di immettere per poi confrontare, con quella cultura, la TUA idea di suono/musica. In tutto questo la responsabilità del compositore nei confronti di chi ascolta è del tutto secondaria, irrilevante direi. Lo è talmente tanto che io vedo in quest’assunzione di responsabilità la sublimazione dell’ascoltatore; e non posso non sentire in tutto ciò un profondo rispetto per le orecchie di ascolta.
Luigi:
“Forse perchè l’ascoltatore non può capire?”Non possiede abbastanza sedimenti? E’ una pretesa forte.”
Fabio:
In parte naturalmente si. Non c’è nulla di drammatico nell’ammettere i propri limiti.
C’è chi, ascoltando, non riesce a distinguere le specie di settime l’una dall’altra e c’è chi individua al primo ascolto le caratteristiche di campi armonici di 9 10 suoni. Così come ci sono molti modi di avvicinarsi alla Musikalische Opfer bachiana e di comprenderne i livelli di ascolto.
Luigi:
“E se esistesse una comunità di ascoltatori in grado di svelare le truffe spacciate per ricerca musicale?”
Fabio:
Parteciperei ben volentieri a questa caccia. Mi pare fondamentale. Probabilmente ci troveremo d’accordo su molte cose.
Ma la divergenza di opinioni su Cage, Xenakis, Brun, e probabilmente molti altri, rimangono uno scoglio insormontabile. Trovo esemplare questa nostra discussione.
Non credo quindi che una battaglia comune del genere potrà mai esistere, anche perchè se è possibile esprimere giudizi di valore molto differenti tra Structure Ia di Boulez e Repons, a quel livello di crociata, un po a la Baricco (e oggi purtroppo alimentata anche da sedicenti scienziati, in Italia, che vanno cercando i fondamenti fisiologici della consonanza per criticare pocodimenoche, la dodecafonia!!!!!) ci saranno sempre i detrattori della musica contemporanea pronti a gettarsi spadatratta e con una tale indifferenza e pregiudizio da cojere a destra e a manca senza essere disposti a smuovere minimamente il cerebro.
Luigi:
“E sarebbe auspicabile da parte dei compositori (me compreso) una sempre maggiore attenzione in questo senso, proprio perchè dobbiamo mettere da parte il nostro ego!”
Fabio:
Aspetta Luigi, calma 🙂 Tu l’ego lo vuoi mettere da parte per incontrare e mediare il tuo linguaggio con linguaggi esistenti e condivisi io per comprendere meglio poetiche che non conosco. Sono due cose un po differenti.
Luigi:
“Le sale da concerto si svuotano, la musica contemporanea agonizza, gli spazi dedicati alla ricerca si restringono e la responsabilità , in parte, è proprio degli addetti ai lavori.”
Fabio:
A me la musica contemporanea pare in gran forma e quando passano ensemble in grado suonare questa musica, io trovo le sale sempre piene. Ma non mi interessa più di tanto. Per me certa musica non può far altro che aspirare alla (e subire dicono alcuni) condizione di musica reservata. Per me è essenziale, un po come la ricerca di base, quella fondamentale.
Sugli spazi dedicati alla ricerca, essendo attualmente dottorando, non posso far altro che darti ragione. Altro che restringersi. La situazione, per quello che riguarda la ricerca musicale/musicologico-sistematica, è quasi imbarazzante se confrontata con quanto avviene livello internazionale. Per fortuna, grazie a persone curiose come Gianpaolo e Sara, possiamo conoscere alcuni tra i lavori dei cervelli più interessanti in Italia come il qui presente Andrea e Davide Rocchesso.
Tutto quello che scrivi rimane molto civile, tollerante e plausibile. Io cerco, a livello teorico, ben altre vie. Faccio altre rilfessioni, e, in musica, altre scelte. Però non ti è concesso, a meno che tu non abbia il dono della telepatia, conoscere la vera natura del mio mettere da parte l’ego. Se intendi dire che miro all’integrazione del mio ego con quello del resto del mondo, è così. Ma non puoi dire che non voglia aprirmi ad altre poetiche. Posso pure comprenderle, sperimentarle, e rifiutarle all’interno della mia attività , evidenziandone i limiti e le pretese infondate. Un po’ di libertà val la pena concedersela. Davvero sono più o meno d’accordo con molte tue riflessioni, tranne la riservatezza come valore. Ma finiamola qui, sennò si profila lo spettro facebook o youtube….Vabbè, sull’offerta musicale permettimi pure di dire che nulla di quanto è stato scritto vale un fico secco rispetto a quello che vuol dire ascoltarla e suonarla…perchè è musica! Guai a confonderla con il processo di biscardi che ha scatenato!
Accidenti! Bella discussione. Scusate il ritardo. I miei complimenti vanno sempre ad Andrea. Solo due parole: la magnificenza di un ambiente come supercollider (interamente orientato alla programmazione ad oggetti) è che lo si può intendere come un vero è proprio membro attivo di un’ensamble che produce suoni (organizzati o meno che siano, software o reali). La scrittura del codice è già di per se notazione musicale. Per citare Croce (per la nuova musica ci vogliono nuove orecchie) per l’interpretazione dei nuovi gesti sonori ci vogliono nuove codifiche. Di cui si può ben dire che la musica algoritmica sia una di queste (ovviamente c’è ne sono altre) e senza tante discussioni. La composizione “musicale” è un puro gesto creativo. Come tale utilizza la tecnologia della sua epoca (questa l’origine della parola arte). Non esistono suoni belli o suoni brutti ma solamente suoni. Tutto il resto lo fa la nostra educazione.
p.s.: la notazione tradizionale è un codice interpretativo legato soprattutto agli strumenti tradizionali, alla tecnica richiesta da una composizione sonora concettualmente grafa ed all’epoca stessa della sua definizione. La nuova semiografia non si discosta molto da questa: si è solamente inventata nuovi segni e molto personalizzati dai vari compositori (vedere appunto Donatoni, Sciarrino, eccetera).
Scusate gli eventuali errori, è tardi e sono stanco. Buonanotte a tutti e suoni d’oro.
scusate, che c’entra cage con la composizione algoritmica? quali sue composizioni sarebbero state composte algoritmicamente?
vi sarei grato se qualcuno mi rispondesse.
cito poi da fabio:
“C’è chi, ascoltando, non riesce a distinguere le specie di settime l’una dall’altra e c’è chi individua al primo ascolto le caratteristiche di campi armonici di 9 10 suoni. Così come ci sono molti modi di avvicinarsi alla Musikalische Opfer bachiana e di comprenderne i livelli di ascolto.”
ecco, questa è la principale causa del bassissimo livello della CULTURA MUSICALE nel nostro paese: che ci siano cioè persone come fabio che pensano ancora che chi individua al primo ascolto le caratteristiche di campi armonici di 9 o 10 suoni capisca di più la musica di chi non riesce a distinguere le specie di settime l’una dall’altra, mentre io conosco un sacco di persone che individuano al primo ascolto le caratteristiche di campi armonici di 9 o 10 suoni e non capiscono UN CAZZO di musica e un sacco di altre persone che non riescono a distinguere le specie di settime l’una dall’altra e capiscono la musica PERFETTAMENTE (ovviamente nel senso che le settime le distinguono eccome, ma non in quanto tali, cosa che non significa assolutamente nulla e che può essere paragonata al rapporto che sussiste, che ne so, tra un testo poetico e chi è in grado di cogliere in esso alla prima lettura di quante consonanti e di quante vocali esso sia composto…). quanto all’offerta musicale, penso analogamente che la capisse molto di più un regista come tarkovskij che un qualsiasi musicologo che ne abbia prodotto un’analisi semiotica di 1200 pagine.
insomma, detto in sintesi: LA MUSICA, OGNI MUSICA, E’ FATTA PER ESSERE ASCOLTATA. ergo: l’ascoltatore è ciò che conta di più (del compositore e dei suoi problemi, francamente, ‘un ce ne importa un cazzo…)
(PS 1: scusate il linguaggio ‘colorito’, sono di livorno…)
(PS 2: milton babbitt, sia detto per inciso, era un cretino)
Non so se sia ancora il caso…ma, caro Marco Busatto, i suoni belli e brutti esistono eccome!
Altrimenti perchè io preferisco ascoltare Denis Smalley piuttosto che i miei primi esperimenti elettroacustici? Semplice: per una questione di educazione, nella fattispecie la mia, che appunto non era in grado di dare respiro, dettaglio, spazialità al suono. Semplice artigianato, senza le cui basi però, si producono soltanto rumori grezzi di cui possiamo tranquillamente fare a meno, tanto nei concerti, quanto nella vita quotidiana. Ha un senso il sound design? Se ha un senso, è proprio in quell’educazione al suono da parte di chi lo produce che comprende (senza esaurirsi lì, ovviamente) il godimento, il piacere di ascoltare.
Ma riesci a notare la differenza tra il sonoro di un film come Wall-E e il sonoro di un “Caos Calmo”? Non mi dire che è una questione di educazione…E che non esistono suoni belli o brutti.
Hai mai notato l’enorme differenza che c’è tra il suono di un organo antico e quello di uno moderno-industriale? Basterebbe soltanto dire che l’uno produce suoni belli (e viene la pelle d’oca ad ascoltarlo), l’altro suoni brutti, e non si vede l’ora che smetta di suonare. E potremmo definire quella bruttezza come povertà di suoni armonici, incoerente diposizione spaziale delle canne, effetti acustici indesiderati, sbilanciamento di piani frequenziali).Semplicemente si fa fatica ad ascoltarlo. Ma se tutto questo non si prova sulla pelle, c’è poco da fare. Sì, è questione di educazione, che personalmente intendo in maniera abbastanza diversa dalla tua.
sono peraltro totalmente d’accordo con luigi mastandrea…
Su Cage:
Se la “composizione algoritmica” è un “genere” (di cui io sare l'”esperto”, come, chissà perchè, sembra essere assunto nella discussione), nessuna.
Se “algorithmic composition can be deï¬ned as every composition practice using formalized procedures (algorithms) for the generation of the representation of a musical piece” (Roads 1996), molti.
Su Babbit sarei pure d’accordo, anche se mi sfugge il suo inserimento nella discussione per solo per sancirne lo status di “cretino”. Non nutro sentimenti così profondi nei suoi confronti.
Sono molto contento di questo post e della discussione che ha generato.
Vorrei comunque segnalare che tavolta gli animi si scaldano troppo, magari dimenticandosi che si sta discutendo di opinioni e non di sentenze assolute, che ognuno è libero di esprimere le proprie idee, ma nel rispetto altrui. Specialmente quando si discute di argomenti complessi come questi.
Il mezzo poi fà la sua parte, nel senso che spesso e volentieri i commenti di un post non sono il miglior luogo dove scambiarsi opinioni.
In poche parole voglio ringraziare tutti per il loro contributo a uno dei migliori post dell’anno (che sicuramente ha sviscerato molti temi caldi), ma allo stesso modo invito a moderarsi e a scaldarsi il meno possibile.
Per fortuna non stiamo parlando nè di politica, nè della nazionale di calcio…
Si diversa. State parlando solamente di estetica del suono. Trattato come fosse arte figurativa volta alla pubblicità . Rimando a Stockhausen: Hymnen come esempio (ma ovviamente c’è ne sono tantissimi). Comunque nel concetto primario di suono non intendo suono ben eseguito o non ben eseguito (è ovvio che l’empirismo tecnico e lo studio unito alla sensibilità porta ad un filtraggio personale dei suoni nel tempo) o di buona disposizione delle parti che formano lo strumento (tipico lavoro dell’artigiano), ma piuttosto ad una non necessaria casta sonora di base: l’organo antico rimane ben ancorato al “suo tempo” ed è (stato) funzionale alla “musica” del suo tempo. Se parli in questo modo non dovrebbero mai essere esistiti artisti del calibro di Bruce Nauman (tanto per citarne uno di figurativo) e di Pierre Schaeffer (tanto per citarne uno sonoro). La musica algoritmica ha ben poco a che fare con l’organo antico, se non come altro elemento all’interno della composizione (ne più ne meno). Se il sound design, la foto musica, il paesaggio sonoro sono volti alla piacevolezza ed alla pacifica godibilità non c’è molto da cui aspettarsi. Se invece sono volti alla presenza espressiva del sonoro c’è da aspettarsi che non denigrano l’organetto di plastica. Deve essere utilizzato per quello che è e per quello che da. Fino al limite. Il linguaggio sonoro, come quello figurativo e quello plastico, deve proseguire nel suo cammino: forse verso il baratro. Chi lo sa? Mi chiedo se per comunicare, Luigi e Andrea, utilizzate cavaliere e cavallo oppure l’iphone e web-cam. D’altra parte io sono ancora uno di quelli che usa carta e penna e scrive agli amici, utilizzo supercollider (male) e suono il flauto traverso (male anche questo) e so disegnare bene (forse questo mi basta) quando voglio.
Buonanotte e sogni d’oro.
p.s.: non sono in grado di dire se Cage abbia o no utilizzato algoritimi per la sua musica. Lascio ad altri ben più eruditi di me la risposta. Ma, così, di botto direi di no.
Cavallo e cavaliere per comunicare? Io direi pecore e pastori….e led…
http://www.youtube.com/watch?v=D2FX9rviEhw
con simpatia…
Ovviamente il riferimento all’organo antico era per spiegare che un suono può essere anche bello…Poi si può comporre musica del nostro tempo anche con strumenti antichi: ho ascoltato tempo fa Charlemagne Palestine che improvvisava su di un organo del 1500 a Bologna…E poi non mi risulta che Schaeffer abbia fatto musica prestando poca attenzione alla qualità dei suoni.
Se poi il linguaggio sonoro va verso il baratro, non ci si lamenti della scarsa affluenza di pubblico a certi concerti, e dell’inconsistenza di finanziamenti…dato che ormai praticamente non c’è mercato per determinate forme d’arte.
Errata Corrige. Il seguente passo del mio post più sopra doveva essere: “Mi chiedo se per comunicare, Luigi e Marco (Lenzi), utilizzate cavaliere e cavallo oppure l’iphone e web-cam” e non Andrea che con questa diatriba centra poco. Sorry, la fretta e la non rilettura.
Prendendo spunto da Gianpaolo non si dovrebbero tirare in ballo nomi altisonanti per rafforzare e dimostrare la propria opinione. Proprio come dei ragazzini che litigano se un sol pugno dell’Uomo Ragno possa abbattere Hulk (ovvio che sì). Tendezialmente cerco di evitare queste invocazioni, come credo anche gli altri. Ma alcune volte nella foga, nell’enfasi, proprio come dei tifosi, spuntano nomi come funghi. Bisognerebbe evitare. Basarsi sul proprio operato ed eseguire autocritica. Ma discutere fa bene, anche se sui commenti. Basta non eccedere. See you.
“milton babbitt era un cretino” alludeva alla sua frase “who cares if they listen”, frase che si commenta da sola, e che troppi furbi compositori l’hanno immediatamente adottata per legittimare la loro musica priva di senso, priva di un benché minimo orientamento estetico, priva soprattutto del benché minimo rapporto col presente (parlo dell’80 % della musica colta contemporanea degli ultimi vent’anni, non di un pezzo o di un autore in particolare…)
quanto poi al concetto di composizione agoritmica, la definizione che ne dà curtis roads mi sembra un po’ fumosa: cosa vuol dire esattamente ‘formalized procedures’? può voler dire tutto e niente… il lancio delle monete è un procedimento formalizzato? comunque, nel caso volesse dire quello che intende dire, allora sì, non solo molte ma TUTTE le composizioni di cage (almeno quelle dal 1951 in poi) sono musica algoritmica (che espressione brutta, però… mah…)
Io proporrei una differente interpretazione dell’inesistente livello di cultura musicale italiana, e di come questa sia ormai immersa in una sorta di peccato originale, con il quale i nostri cari emeriti e colti studiosi non vogliono avere a che fare riservandosi di fare, con noi, i cafonazzi online e riservando invece colte dissertazioni in altre e più prestigiose sedi.
Vediamo:
Su Cage:
Non c’è bisogno di un computer per produrre musica algoritmica; in questo senso Cage ne scrisse molta. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. Se non si comprende questa affermazione non si comprende la storia della musica.
Il peccato originale:
Nel cercare di voler comprendere i fatti musicali sono ancora in molti coloro i quali non accettano (come se le nostre “opinioni” in questo caso avessero una qualche importanza) che un certo modo di fare e di pensare la musica c’è, esiste ed è esistito all’interno della tradizione della musica occidentale. Non riconoscendo questo non si fa un torto a me, ma si preclude semplicemente l’incontro con quel tipo di esperienze. Se a Marco e Luigi non interessano i problemi della musica algoritmica e se rispondono a tali “questioni” con un “la musica è fatta per essere ascoltata”o “milton babbitt era un cretino” potrei anche in linea di massima in quanto compositore essere d’accordo (e con le dovute differenze lo sarei), ma con questo giudizio, con questa opinione, non ci faccio nulla se il mio fine è invece conoscere quel tipo di esperienze estetiche che sono differenti dalle mie.
E’ un problema di conoscenza, di incontro se vuoi. Di comunicazione dicono altri.
Marco dice: “LA MUSICA, OGNI MUSICA, E’ FATTA PER ESSERE ASCOLTATA”…sticazzi… e quindi?
Cosa ho compreso con questo di Cage, Xenakis, di Valle, di Babbit? NULLA. Perchè preferisci parlarmi di te e di quanto sia bello avere un orecchio enorme al posto del cervello? Un brutta mutazione genetica.
E’proprio questo il vecchio pregiudizio che proprio nel nostro vituperato paese tarda ad essere estirpato.
Ovvio poi che per produrre buona musica non sia necessario esplicitarne la grammatica. Anch’io conosco molte persone felici di non conoscere la musica e di produrne di piacevolissima. Conosco certi compositori “titolati” che scrivono musica immonda, senza capo ne coda, sia epigoni di certo facile approccio algoritmico, quanto di quello suggerito da una superficialissima estetica listener oriented.
Ma non puoi scrivere una fuga se non sai cos’è una fuga così come non sai come suona una distorsione se non conosci differenti amplificatori. Sono competenze differenti e non rappresentano cognizioni di causa esterne alla musica (come lo può essere invece l’analisi semiotica) ma propria alla musica. Non capisco cosa ci sia di trascendentale in questa affermazione se non la volontà (ancora una volta tipicamente e polemicamente italiota) di interpretarla ideologicamente, bofonchiando opinioni nel nome di una bieca contrapposizione tra accademismi di bassa lega.
Marco, la definizione di Roads è molto precisa. Non mi addentro perché giustamente tu stesso ne trai le conseguenze dopo: si attaglia perfettamente al lancio delle monete o all’I Ching, come alla loro implementazione su calcolatore da HPSCHD (con Hiller) in poi. Infatti io nell’intervista parlavo di “composizione algoritmica *lato sensu*”. (E scusa se mi faccio gli affari tuoi, ma solo quelli pubblici: spesso si attaglia anche allo straordinario lavoro di Aldo Clementi, di cui sono anch’io un grande estimatore ma sfortunatamente non un allievo). “Espressone brutta”? Mah, quando io penso a un “algoritmo” non penso al complesso militare-industriale (quello dei cervelloni degli anni ’50), o al mondo della tecnica che disumanizza il mondo della vita, ma alla ricetta della torta di mele (come diceva Peirce ante-computationem: “una buona torta, fatta di mele fresche, con una crosta piuttosto leggera e un poco bassa, né troppo dolce, né troppo aspra”). Ora, c’è chi ci si concentra direttamente mentre ha le mani in pasta, e chi si immagina tutta la ricetta prima, e poi la prepara. E c’è uno spettro di posizioni intermedie, di chi prende qualche appunto in varia forma (prima di fare la fontana nella farina), e raffina in corso d’opera, e così via. Rispetto all’arte bianca (e soltanto rispetto all’arte bianca), Xenakis e Cage sono più prossimi di quel che vorrebbero. E, molto spesso, pure Ligeti. Pe restare in tema, non volevo discutere una fenomenologia del gusto, che non è certo irrelata all’arte bianca, ma è comunque una altra pertinenza (che non è stata introdotta da me). Perciò non mi addentro nel dibattito sull’ascolto. Rilevo solo due cose. Primo, come detto, non c’è dipendenza *diretta* e *univoca* tra approcci compositivi e strategie d’ascolto (che sono tante, diverse, spesso opposte, tutte possibili se praticate, tant’è che io parlo sempre di “ascolti” a partire da Schaeffer). Ottima (o pessima) torta di mele da due cuochi che lavorano in modo diverso: non mi sembra un caso difficile. Né si capisce perché un approccio algoritmico, formale, assisitito etc debba essere avulso, ad esempio, dallo studio della percezione. (Anzi, lo spettralismo, che è largamente computazionale, è ormai accademia). Tutto dipende solo da cosa si vuole formalizzare (se lo si vuole e se ci si riesce). Secondo, starei quantomeno attento, molto, agli eccessi del “puro udibilismo”. Perché mi pare che nel dibattito si stia arrivando a sovrapporre senza resti percezione e giudizio di valore. Dico, senza resti. Come se il giudizio di valore sull’oggetto percettivo fosse implicito nell’oggetto stesso. Eccola una ontologia del bello più realista del re: si danno le cose belle e le cose brutte, in natura. Certezza sensibile, e anche oltre. Naturalizzazione integrale del senso, proprio quella che piace agli sciento-tecnocrati.
a fabio (e anche un po’ a andrea)
no. non sono d’accordo con te, fabio. mi rendo conto della complessità della questione e non credo che questo sia il luogo adatto ad approfondirla, ma cercherò di chiarire la mia posizione [con la massima serietà , visto che vi danno fastidio le ‘parolacce’ e i toni un po’ sopra le righe – che da parte mia comunque non sono segno di offesa alcuna verso chicchessia ma pura e semplice fisiologia culturale (ripeto, sono livornese e quando parlo non posso fare a meno di essere un po’ sguaiato) nonché pura retorica verbale e registro espressivo (e, sia detto per inciso, sono toni che assumo tranquillamente ovunque, sia nei blog che in sedi accademiche, non ho proprio problemi di questo tipo…)].
dunque: il problema sta proprio nel rapporto tra arte e conoscenza. quando dico che la musica è fatta per essere ascoltata voglio ricordare un fatto semplice e ovvio, nient’altro che una verità lapalissiana. voglio dire: è impossibile NON essere d’accordo su questo, altrimenti non si va da nessuna parte, giusto? la musica, ogni musica, è fatta dunque per essere ascoltata: dal primo uomo di neanderthal che, avendo scoperto che soffiando dentro un corno si produce un suono, RItorna al corno e ci RIsoffia dentro PER RIsentire, riascoltare QUEL suono (e non per scoprire COM’E’ fatto il corno né per indagare COME si produce e che cosa sia un suono) fino a 4′ 33′ di cage, pezzo interamente silenzioso la cui verità non sta appunto nella carta ma nell’ascolto del silenzio. perfino l’antica musica delle sfere, per definizione non udibile, costringeva e costringe ad un ascolto immaginario (immaginario quanto si vuole MA pur sempre un ascolto: non si può semplicemente ‘pensare’ alla musica delle sfere, non si può NON farsene un’immagine sonora). detto questo, dato ciò per assodato, se ne deduce che l’ascolto è il primo e l’ultimo termine di paragone, ha la prima e l’ultima voce in capitolo nella questione.
nel mezzo, ovviamente, c’è il mondo: il sapere, la conoscenza, la curiosità , il piacere di suonare, comporre, discutere di musica. tutte cose (non vorrei essere stato frainteso) SACROSANTE e legittimissime. ma, appunto, sono ALTRO dall’ascolto. ora se si cerca di capire in quale rapporto stiano queste due cose (l’ascolto da una parte e – per sintetizzare – il sapere dall’altra) io dico, sorprendentemente: in NESSUN RAPPORTO (per quanto possa sembrare che siano intimamente legate). il sapere e la conoscenza SCIVOLANO sopra la superficie dell’ascolto: non lo toccano, non lo condizionano, non lo inficiano, soprattutto non lo illuminano. l’ascolto è un EVENTO, un – mi si passi la terminologia vagamente heideggeriana – accadimento: irrappresentabile, non concettualizzabile, non traducibile, non spiegabile. l’ascolto, ciò che accade durante l’ascolto, nell’incontro tra la musica e l’ascoltatore, è e resterà sempre un mistero. il resto è chiacchiera, passatempo (di vario livello, ovviamente: si va dal gossip parabiografico alle più sofisticate e dettagliate analisi musicologiche). nessun approfondimento teoretico, nessuna ricognizione storico-culturale può CONVINCERMI della bontà o meno di un’opera d’arte, anche se può darmene l’illusione. allora si nasce imparati? no. esiste evidentemente una facoltà (che kant forse si è dimenticato di categorizzare) che presiede alla valutazione delle opere d’arte e che prescinde totalmente dalle indagini svolte attraverso mezzi cognitivi. può questa facoltà essere educata, sviluppata, affinata, migliorata? sì. come? non lo so. è come la virtù platonica: non può essere insegnata. vi sono competenze musicali di cui non si sospetta neanche l’esistenza, competenze alle quali non sapremmo dare un nome. quali competenze musicali aveva, p. es., stanley kubrick? io credo fosse una delle persone più sensibili alla musica che siano mai esistite, ma non sarei in grado di descrivere in che cosa consista questa sua sensibilità . eppure: quale musicista, quale musicologo avrebbe mai potuto suggerirgli di mettere un valzer di strauss comme commento delle straordinarie immagini spaziali di 2001? quale musicista, quale musicologo avrebbe mai intuito che una musica così inascoltabile e in sé orrenda come la versione elettronica di beethoven e rossini avrebbe sortito un effetto assolutamente devastante se applicata alle immagini di clockwork orange? come si fa a spiegare questo fenomeno? c’è una ragione precisa per cui un valzer della vienna asburgica di fine ottocento si addice perfettamente a descrivere immagini di astronavi aleggianti nell’etere?
ma non c’è tempo di continuare. mi accontento, almeno per ora, di queste considerazioni sparse. sperando di essere stato chiaro.
Marco, sull’ascolto come evento sono del tutto d’accordo (il mio primo pezzo in inchiostro verde si chiamava “Procedura d’accadimento”). Infatti, l’utilizzo di procedure interessa a Cage proprio perché permette di allestire un teatro dell’ascolto che non è già “preascoltato”. Per farti cogliere veramente di sorpresa dall’evento (per essere purposeless) lo devi comunque allestire (intentionally). Quindi, di nuovo, non riesco a vedere nessuna contrappossizione di principio (nei fatti può essere: dei singoli autori o opere si può certamente discutere). Resta questa idea dell’ineffabilità radicale dell’ascolto. Che è una facoltà , ma insieme si impara (?). Che si impara, però non può essere insegnata (?). E che riduce tutto il resto in una chiacchiera che scivola via senza intaccare la natura vera dell’ascolto. Va bene, ma allora diventa quantomeno complicato parlare di “cultura musicale del paese”, di “rapporto col presente”, di “orientamento estetico”: semplicemente perché non c’è linguaggio (*lato sensu*, non penso necessariamente alla lingua verbale) che ne possa parlare. A meno che la cultura musicale di un paese sia una forma di empatia collettiva a partire dal dato fenomenologico. Al di là del fatto che nel momento in cui è collettiva siamo daccapo, rispetto a questa cultura noi (io e te tra l’altro sulla stessa enciclopedia, fabio in altre occasioni) abbiamo accettato di contribuire con un lavoro che a questo punto è alienante perché fondamentalmente inutile (ed è inutile chiamarlo “sacrosanto”: ma cosa me ne fotte di fare una cosa *per me* inutile?). Invece, non avendo un corno sottomano, alcune volte abbiamo preso un disco, l’abbiamo ri-messo sul piatto, e abbiamo provato a dire qualcosa di questa (ri)esperienza, con tutti i limiti possibili, gli ammanchi e gli eccessi che questo comporta. Perché è proprio nel ri-prendere in mano il corno per ri-sentire (“nella piega di una ripetizione”) che inizia un cultura del corno, certamente a partire da uno stupor originale, ma uno stupor che vuole essere ripetuto (addirittura la scrittura vorrebbe eccedere eternandolo) e magari (è un problema?) condiviso con altri.
sì, effettivamente mi rendo conto di aver usato toni un po’ misticheggianti nel mio ultimo intervento… volevo solo porre l’accento sulla natura paradossale dell’ascolto, su un suo modo di darsi che è irriducibile a qualsiasi speculazione. quindi forse farei meglio a distinguere ascolto da ascolto; non esiste, ovviamente, un ascolto ‘puro’… ma la questione fondamentale è: quando ascolto un pezzo di musica cosa ascolto? è qui che si creano degli scarti, delle cesure. ciò che si ascolta non è mai l’esito di un percorso transitivo lineare che dalla mente del compositore raggiunge l’orecchio dell’ascoltatore passando attraverso un codice linguistico (il metodo compositivo e le sue regole – i suoi algoritmi…); anzi, quando si verifica questo, quando cioè un pezzo di musica non è nient’altro che l’immagine, la rappresentazione sonora, per così dire, del processo che lo ha posto in essere – ecco, lì l’esperienza d’ascolto fallisce, proprio perché in questo caso non si produce più alcuno scarto. ed è nella tensione che si crea tra ciò che effettivamente si sente (una successione di fenomeni sonori) e lo scarto che esso produce (che poi in fondo non è nient’altro, questo scarto, che un’emozione ‘astratta’, senza nome) che si gioca il senso più profondo e autentico dell’esperienza estetica. insomma l’esperienza estetica è autentica quando non è ‘soltanto’ un’esperienza estetica.
(mi sa però che così invece di chiarirle le ho ingarbugliate di più, le cose… eh, non è facile parlare di queste cose… sì, rileggendo quello che ho scritto mi par d’essere lo pseudo-dionigi areopagita…)
Caspita che lungo discorso ha suscitato l’Andrea Valle … che a tal proposito vorrei ringraziare per la sua disponibilità a rispondere sul blog, per i testi che ha scritto e per il lavoro di ricerca che svolge ogni giorno: GRAZIE!
Per quanto riguarda la lunga ed accesa discussione, sicuramente molto interessante, mi guardo bene dallo scrivere qualcosa proprio per evitare il prolungamento del post.
Adesso vi dirò una cosa soltanto che potrebbe scioccarvi: non abbiate paura di comporre musica (a patto che vi sia una chiara consapevolezza di causa/effetto), l’estetica non esiste!
Saluti,
Ale
Il dubbio che poni, Marco Lenzi, è ricollegabile ad una qualsiasi delle arti: quando guardo che cosa guardo in realtà o che cosa vedo e percepisco di quella realtà che guardo (accidenti mi sembra un quesito tipico di logica fuzzy). L’opera d’arte, che sia sonora, figurativa, performativa o altro, pone e discute continuamente su questa e con questa domanda, che in fondo riguarda il pensiero e l’emotività di chi guarda e ascolta e di chi produce e mette in piedi (il dubbio è ciò che crea) e di tutto il bagaglio delle esperienze accumulate sia dagli uni che dagli altri.
Mi fermo, anche perché io sono pinco pallino e qui si va fuori dal seminato… Concedetemi solamente un’altra nota, un rimando a “La sparizione dell’arte” di Jean Baudrillard per chi volesse approfondire tali argomentazioni.
Alex l’estetica non esiste perché sia il bello che il brutto sono un tutt’uno con il risultato di una percezione soggettiva influenzata da una miriade di fonti (gruppo sociale, educazione, gusti personali, eccetera). Però negandola la si rivendica. Quindi, in perfetta linea con la logica fuzzy (ancora una volta) esiste e non esiste, e per metà vera e per metà falsa: estetica non-estetica. (???)
Ringrazio Luigi per il simpatico video ma, come tecnologia, preferisco http://suguru.goto.free.fr/Contents/SuguruGoto-e.html.
Ma in tutto questo dov’è finito supercollider? So che questa non è la sede ma non si dovrebbe discutere di reti neurali e di algoritmi genetici improntati alla costruzione degli eventi sonori? E’ del perché l’arte in toto deve impossessarsene ed utilizzarli?
e allora?
(tutto quello che ho scritto in realtà è un delirio per dire che non mi piace il termine supercollider)
…e comunque, tornando a fabio e in particolare a questo passo della sua risposta:
[cito] Marco dice: “LA MUSICA, OGNI MUSICA, E’ FATTA PER ESSERE ASCOLTATAâ€â€¦sticazzi… e quindi?
Cosa ho compreso con questo di Cage, Xenakis, di Valle, di Babbit? NULLA. Perchè preferisci parlarmi di te e di quanto sia bello avere un orecchio enorme al posto del cervello? Un brutta mutazione genetica.
E’proprio questo il vecchio pregiudizio che proprio nel nostro vituperato paese tarda ad essere estirpato. [fine citazione]
dico e ribadisco che no, non è questo il vecchio pregiudizio che nel nostro paese tarda ad essere estirpato, ma è esattamente il pregiudizio contrario, quello cioè secondo cui per ‘capire’ la musica occorre conoscere la sua grammatica: QUESTO è il pregiudizio responsabile dell’ABISSO che ancora oggi separa il piccolo mondo dei musicisti
dai sentimenti e dalle emozioni degli esseri umani. è questo che ha impedito a milioni di persone di coltivare la propria musicalità e la propria sensibilità musicale al di fuori delle pareti buie e odorose di muffa dei conservatori, è questo che fa loro dire ‘io non capisco niente di musica’, ‘non canto, sono stonato’, ‘ho iniziato a studiare il pianoforte ma poi ho smesso’. di questo sono responsabili tutti quei nipotini di hanslick che hanno attaccato l’approccio ludico e ingenuo al fenomeno sonoro opponendogli un severissimo quanto ottuso approccio ‘formale’ che dovrebbe, secondo loro, far capire meglio un pezzo di musica solo qualora si riuscisse a individuarne le progressioni, le cadenze, le imitazioni e tutti gli altri aspetti linguistici ‘interni’ (che poi, cosa comica tra tutte, non sono in grado di cogliere nemmeno loro…): questa è la stronzata micidiale [oh, scusate, proprio non ce la faccio a non dire parolacce…] che ha consegnato l’italia musicale in mano agli amici di maria de filippi. il resto (‘capire’ cage, xenakis, valle, babbitt) è aneddotica e curiosità (file under ‘la settimana enigmistica”s’lo sapevate che?…’).
Caro Marco, ma ti brucia un po il sederino? O sei uno di quei burocrati che ha bisogno di leggere prima il curriculum delle persone per interpretare ciò che dicono?
Il tuo pregiudizio ideologico è grosso come una casa e credo sia ora di finirla con questi atteggiamenti da pseudo intellettuale post-sessantottino represso e oppresso dai corridoi bui di un’istituzione, quella dei conservatori, che rappresenta lo 0,00002% della bella produzione musicale mondiale che invece quelli che la pensano come te hanno contribuito a costruire. Io non sono un burocrate e da buon individualista non faccio il portaborse delle istituzioni, figurarsi quindi quelle musicali (tra l’altro se proprio ci tieni alle tue distinzioni tra categorie inferiori e superiori musicalmente sono un’autodidatta, con l’hobby del thrash metal 🙂
Ma veniamo al dunque, visto che ci tieni.
Mi pare che tu non abbia capito nulla di quello che ho detto (anzi, di quello che è stato detto) e di certo non posso essere responsabile della tua incapacità di una qualsiasi distinzione fenomenologica (ops, che, capisco, in questo contesto non può che suonarti come una parolaccia). Se non vuoi conoscere determinate esperienze musicali (indipendentemente dalla nostra formazione) è e rimane un problema tuo che potevi evitare di palesare in questo contesto (ma a quanto vedo, confondendomi con qualcun altro, stai mostrando il tuo desiderio di volerti togliere dei sassolini dallo scarpone). Quindi ti consiglio di prendere meglio la mira prima di sparare.
Dici:
“non è questo il vecchio pregiudizio che nel nostro paese tarda ad essere estirpato, il pregiudizio contrario, quello cioè secondo cui per ‘capire’ la musica occorre conoscere la sua grammatica:”
No, Marco. Non fare il Bruno Vespa della situazione. Non ho mai detto che per “‘capire’ la musica occorre conoscere la sua grammatica”…capisco che la distinzione può essere sottile ma è fondamentale in questo contesto:
Per comprendere alcune esperienze (quali ad esempio quelle di cui si parla e molta della musica scritta occidentale, che so non fregartene niente e non capisco perchè ci tieni tanto a farcelo sapere) è utile conoscerne il funzionamento. La plasticità è neurale. La qualità del tuo ascolto può essere differente perchè, come dicevo, le orecchie non sono staccate dal cervello.
Per ottenere una risposta estetica, o ad esempio affinchè certe aspettative risolte o disattese possano far emergere in modo sostanziale e differente anche emozioni e sentimenti, è necessario, Marco o non Marco, educare.
Ma faccio un passo ulteriore, tra l’altro estremizzando una dimensione dell’ascolto che difficilmente saprai a questo punto interpretare:
Per le esperienze di cui parlo, che io chiamo Musica (e qui la emme maiuscula prescinde da qualsiasi considerazione fenomenologica”), io auspico che la testimonianza di ciò che accade in quanto suono (“che non è conoscenza dei quello che accade mediante il suono” dice Donatoni e sono più che d’accordo) non cessi di essere testimonianza in-formata nel tempo da cognizioni di causa proprie alla musica. Attenzione: PROPRIE e ovviamente in divenire.
Anche perchè (e qui fenomenologicamente torno a sospendere un giudizio per citare fatti storici) La Storia (e scusa l’enfasi sulla S maiuscola) della Musica (idem) Occidentale (oi oi 🙂 affonda le sue radici in una condizione “dialettica” dove il primato dell’ascolto è solo una faccia della medaglia. Platone infieriva contro “coloro che antepogono le orecchie alla mente” (i seguaci di Aristosseno) e l’educazione musicale era per lui pura speculazione teorica. Cose note, liberamente opinabili ma innegabili. In Pitagora, ma poi anche negli armonicali, si fonde la corrispondenza ultima tra numero e suono. Compenetrazione Inscindibile. Se non ci fossero quelle misurazioni del monocordo non ci sarebbero giuste intonazioni; viceversa quegli intervalli sonori non potrebbero essere mai ascoltati se non attraverso quelle, e solo quelle, misurazioni, concrezioni di un pensiero (anche altro) rispetto al suono.
Quindi, se proprio è necessario tirare in mezzo l’apriori, è la necessità dell’esperienza estetico/sonora a dover essere considerata come una… categoria.
Quindi sono d’accordo con Valle.
Non esiste mai una condizione di ascolto musicale “immacolata”.
Noi ascoltiamo sempre ciò che siamo. L’ascolto sarà pure superficialmente la finalità dell’esperienza musicale ma la sua qualità sarà sempre informata da dimensioni altre dell’esperienza e delle sensazioni umane (audivisione e sinestesie comprese).
parafrasando quella gran donna di Anais Nin
We don’t hear things as they are, we hear things as we are
stammi a sentire, supertarzan,
PUNTO PRIMO:
‘sederino caldo’, ‘burocrate che ha bisogno di leggere il curriculum delle persone per interpretare ciò che dicono’, ‘pseudo intellettuale post-sessantottino represso’, ‘incapace di una qualsiasi distinzione fenomenologica’ e ‘Bruno Vespa’ sarai te e qualcuno della tua prosapia selvafiorita.
PUNTO SECONDO:
distinguera la grammatica della musica dal suo funzionamento è come voler distinguere tra porta e uscio. non prenderti per il culo da solo…
PUNTO TERZO:
non è soltanto il conservatorio in sé a sapere di muffa ma tutto quel pitagorismo d’accatto ancora duro a morire e del quale, come direbbe dante, ‘è bello tacere’.
per me, fra un giusto dacci che dice:
[cito] “Il tempo viene distinto in tempo reale-semplice e composto. Il 4/4-2/4-3/4 sono tempi reali perché le varie figure non subiscono alcuna alterazione nel loro valore che hanno, rispondendo esattamente al valore appropriato dai movimenti o quarti, occorrenti nei tempi indicati. Il 2/2-3/8 sono tempi semplici poiché si considera il valore delle figure componenti le misure, non nel loro valore intrinseco in confronto ai movimenti del tempo, ma in proporzione minore: p.es. il tempo 2/2 le minime si appropriano un movimento ciascuna, e il 3/8 le crome rappresentano i tre movimenti del tempo stesso. Sono tempi composti, e si chiamano tali perché il valore delle figure necessarie per la formazione delle singole misure viene fissato in più di quello che rappresentano, sempre in rapporto ai movimenti o quarti frazionanti le misure dei tempi suddetti. I tempi composti sono il 3/2 ove le minime tengono un quarto di movimento, il 6/4 dove tre semiminime rappresentano il valore di un quarto o movimento, il 6/8 perché tre crome si considerano rappresentanti un movimento o quarto, il 12/4 dato che ogni movimento viene indicato da una minima puntata, e finalmente il tempo di 12/8 che tre crome rappresentano un quarto o movimento. Le considerazioni citate devonsi valutare anche pei tempi 9/4 e 9/8.” [fine citazione]
e un fabio selvafiorita che dice che:
[cito] “si sta cercando, con un po di fatica, anche perchè la questione è certamente un po delicata, di integrare la generazione di partiture nei sistemi assisted, o meglio, se vogliamo, di formattazione del testo musicale…mi viene in mente soprattutto http://kiliansprotte.de/lisp/ sta cercando con la library ksquant di estendere la ENP-Score-notation in PWGL per creare un collegamento forte con le procedure (PWGL a parte lo avevo visto anche “pilotare†Sibelius in modo tale da generare automaticamente una partitura..ma non mi ricordo da quale ambiente…era piuttosto impressionante) . Da quanto avevo visto poi in Open Music c’è una library che esporta le score (anche con multimetrie molto complesse) generate in lilypond http://karim.haddad.free.fr/pages/downloads.html . Non l’ho ancora testata mo ho visto dei risultati interessanti.” [fine citazione]
non c’è nessuna differenza.
A FABBIOOOO, FACCE GODE!!!…”
con i migliori augguri per la tua attività compositiva, te saluta ir batterista de i cuggini di campagna.
Buongiorno a tutti, voglio solo segnalare che ho deciso di chiudere i commenti di questo post.
Preferisco non andare oltre perchè si andrebbe in delle direzioni completamente sbagliate. Nessuno ne ha colpa. Ma in questo modo non la finiremmo più e non parleremmo del tema di cui ci stiamo occupando.
Avevo ricordato di calmare gli animi, con la paura che si perdesse completamente in senso della discussione, cosa che è successa purtroppo.
Questa non è una censura, anzi è un invito a tutte le persone coinvolte in questo post a incontrarsi in qualsiasi modo (mail, chat, realmente), magari con noi nel mezzo (si farà un workshop sullo scontro nel mondo della composizione musicale?).
Ringrazio tutti veramente per aver partecipato, ma concedeteci questa posizione finale, in quanto sounDesign è la nostra casa e se le cose non vanno nella direzione giusta abbiamo tutto il diritto di compiere delle azioni di questo tipo.
Non è stato facile gestire questa cosa, manderò delle mail private alle persone coinvolte nel caso in cui vogliano chiarire le loro posizioni, ma per il resto questo post è chiuso.
Non ce ne vogliate, un saluto
sono d’accordo con gianpaolo e mi scuso (ovviamente per quanto riguarda la mia parte). credo comunque che questo, per un’infinità di ragioni, sia un momento molto critico per la musica: non c’è da meravigliarsi se gli animi tendano a scaldarsi quando se ne parla (da qualsiasi punto di vista)… un caro saluto e un abbraccio a tutti,
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